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Multiculturali, ma solo a metà

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L’ultima Biennale è il sintomo di un controverso fenomeno attuale: il ritorno dell’arte politica. In questo orizzonte potremmo iscrivere anche un’interessante mostra, Nero su bianco, curata da Robert Storr, Lyle Ashton Harris e Peter Benson Miller, all’American Academy di Roma (fino al 19 luglio). L’esposizione raccoglie 27 artisti africani, americani, italiani, afroamericani e afroitaliani. Personalità che condividono il bisogno di interrogarsi sulle questioni del multiculturalismo. Spesso analizzato dai sociologi, questo tema rinvia all’idea di una società aperta, all’interno della quale entrano in contatto etnie, religioni, culture, rituali e mitologie, alimentando un fecondo meticciato. Non senza attriti e scontri.

Capace di affermarsi solo quando gruppi indipendenti si trovano ad agire all’interno di un quadro unitario, il progetto di una società multiculturale appare in larga misura in crisi a causa della mancata integrazione tra realtà eterogenee e differenti: «Senza integrazione, infatti, il rispetto della diversità produce l’antagonismo di pratiche, valori e tradizioni, dove l’assenza di un terreno comune finisce per minare la coesistenza civile», ha osservato il sociologo Alain Touraine. È quanto accade in molte nazioni d’Europa: sempre più spesso singole comunità si rinchiudono dentro le loro fortezze.

Tali questioni vengono affrontate poeticamente nei lavori esposti a Nero su bianco. Che, nel collegarsi tra di loro, ripercorrono la storia del rapporto tra Italia e Africa: dalla stagione del colonialismo fascista alle recenti tragedie degli immigrati che «abitano» il Mediterraneo. È nato così un viaggio teso — ricorda Storr — a far affiorare alcuni «mormorii» del multiculturalismo nel nostro Paese: sono sussurri che, emersi già nel corso degli anni Trenta, adesso sono diventati una drammatica realtà.

Potremmo suddividere i protagonisti di questa mostra in alcune macroaree. Innanzitutto, coloro che rievocano atmosfere primonovecentesche: Theo Eshetu filma il trasferimento da Roma all’Etiopia dell’obelisco di Axum, assurdo «bottino di guerra»; il duo Invernomuto recupera filmati tv degli anni Sessanta dedicati alla ricerca della celebre Venere nera e li monta insieme con frammenti del cinema pornosoft dell’epoca; Armin Linke e Vincenzo Latronico ripropongono passaggi di un viaggio letterario e fotografico in Etiopia. Poi, gli artisti che «parlano» deldifferenza  l’immigrazione nell’Italia di oggi: Elisabetta Benassi gira un video sui migranti dall’Africa; Lyle Ashton Harris documenta l’anonima umanità dispersa nella Stazione Termini di Roma. Infine, gli animatori di ricognizioni sociologiche: Terry Adkins immortala un collage di macchinari fuori uso; Onyedika Chuke mostra le violenze nell’Africa del nuovo millennio, esponendo mitragliatori fatti di materiali fragili (come il gesso); Alessandro Ceresoli ordina un’inchiesta sull’Eritrea in cui coinvolge artigiani locali; Bridget Baker elabora un work in progress dove riflette sul tema del razzismo nell’Italia degli anni Sessanta.

Alcuni tratti sono comuni a queste voci: la necessità di sottrarsi a una dimensione analitico-concettuale; una certa indifferenza nei confronti dei media di cui si servono; e l’urgenza di riscoprire la potenza affabulatrice dell’arte, concentrandosi soprattutto sul soggetto delle opere. Per loro, l’arte si dà come testimonianza e come documentazione della «società dell’incertezza» (Bauman): dispositivo per curvarsi sulle contraddizioni del presente. Quel presente che viene affrontato attraverso sentieri laterali: in molti casi, si indugia soprattutto su alcune rivelatrici vicende periferiche. La strategia cui si affidano gli artisti di Nero su bianco è quella dello «sguardo estraneo»: contemplano dall’esterno contesti emarginati, senza aderirvi. Come fa Carrie Mae Weems, che scruta dall’alto i Sassi di Matera.

Dinanzi a noi sono personalità che si limitano al piano descrittivo-fenomenologico. Ad avvicinarle è una profonda tensione socioantropologica: offrono resoconti di situazioni e di episodi, di cui mostrano i lati più oscuri. Esibiscono solitudini e silenzi. Mettono in scena conflitti razziali e contrasti religiosi. Nel momento in cui si misurano con contesti «altri», tendono a fermarsi alla superficie dei fenomeni. Talvolta, indulgono in facili estetizzazioni del «marginale». In loro manca lo slancio visionario caro all’avanguardia: trattare l’opera d’arte come un evento capace di innescare cambiamenti sociali rilevanti. Inoltre, l’incontro con mondi «diversi» non determina, in questi artisti, un effettivo ripensamento linguistico. La scoperta di scenari «differenti» — dal punto di vista sociale, politico e culturale — non genera una ridefinizione della loro grammatica. È come se questi autori non arrivassero a sfruttare il senso dello spaesamento per rimodulare gli artifici che utilizzano.

Forse, sarebbe stato più stimolante soffermarsi sulla ricerca di coloro che sono riusciti a trarre alimento dal dialogo problematico con l’«altro»; e che, pur dotati di un’identità forte, hanno riarticolato la loro sintassi dopo il confronto con culture differenti, in un delicato gioco tra fedeltà e tradimento. In tal senso, illuminante l’itinerario di un artista non presente in mostra: Adrian Paci. Albanese, formatosi all’Accademia di Tirana, da anni trapiantato a Milano, Paci compie spostamenti continui. Dal video alla pittura, dal mosaico all’installazione, alla scultura. E acquisisce immagini familiari, momenti di vita privata, ricordi albanesi. Questo rispetto delle radici convive con una sincera attenzione alla storia dell’arte italiana. Motivo ricorrente delle sue opere è la diaspora. A dominare i suoi video e i suoi quadri-mosaico è uno struggente senso dell’instabilità: vi appaiono personaggi in movimento e volti composti di migliaia di tessere (che simulano i pixel televisivi). Un modo per alludere a una condizione apolide. E per affrontare in maniera lirica — e non documentaristica — le stringenti domande del multiculturalismo.

Vincenzo Trione

© RIPRODUZIONE RISERVATA


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